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Mini-serie di pillole: “La cura”

Che cosa significa "prendersi cura" di qualcuno?

Ci rifletto in questa mini-serie di quattro pillole audio, una specie di podcast in miniatura per passeggiate minime o piccole pause. La mini-serie è nata grazie all’invito di una realtà a cui sono affezionatissima, il Campo Femminista di Agape, che quest’anno aveva come tema proprio la cura.

Ho aggiunto letture che per me sono fondamentali (le trovate indicate tutte in fondo a ciascun episodio) e spunti nati durante la lavorazione di Chroniqueers. Elia Nadie, poi, ci ha messo il suo tocco per visualizzare ogni episodio in un mini-quadro.

È tutto mini, certo: ma c’è tutto quello che serve, per iniziare. Buon ascolto e buona lettura!

1. La cura fa paura

Introduzione

Ciao, sono Mara Pieri, ricercatrice all’Università di Coimbra e affezionata del Campo di Agape. Dal 2016 in poi, nel corso della mia ricerca di dottorato, ho intervistato e conosciuto tante persone con disabilità e malattia cronica, che si definiscono anche gay, lesbiche, bisessuali, non binarie, trans, poliamorose, queer, asessuali. In questo incastro di intersezioni, tante si rivendicano anche come femministe. Parte di questi dialoghi ha preso forma in un progetto che si chiama “Chroniqueers”: lo trovate su Instagram e Facebook e sul sito dedicato.

Quella che invece condivido con voi oggi è la prima di quattro pillole in cui rifletto sulla cura, a partire da quello che ho ascoltato e imparato in questo percorso. Buon campo e buon ascolto.

Pillola 1. La cura fa paura

In portoghese, e anche in spagnolo, c’è una curiosa coincidenza linguistica. La parola per dire “Cura” è “Cuidado”. “Cuidado”, tuttavia, è anche la parola che si usa per dire a qualcuno di fare attenzione: “Cuidado!”. Così, con una stessa parola si indica il prendersi cura e allo stesso tempo il tenersi allerta di fronte ad un pericolo.

Questa contraddizione mi sembra un punto di partenza per questa riflessione, perché al di là delle fantasie e delle belle parole, la cura fa paura. E non c’è dubbio che avvicinarci e provare a spacchettare che cosa significhi, individualmente e politicamente, questo concetto così complesso, implica anche una buona dose di timori e difficoltà.

Ci riporta anche, come in un circolo, al prendere atto che nessuno spazio, nessuna relazione, è uno spazio neutro da relazioni di potere, e dunque di cura. Nel “Manifesto della cura”, che ci accompagna in questo campo, viene dato spazio proprio alla pervasività della carelessness, della mancanza di cura.

Fa paura sapere che siamo sempre, costantemente, interdipendenti. Fa paura anche guardarci attorno e scoprire che siamo sempre, costantemente, immerse in un mondo che continua a considerare la cura come un pericoloso intralcio alla crescita economica.

Disabilità e malattia evocano queste paure tutte, e le persone con disabilità e malattia sono continuamente esposte in lotte letteralmente corpo a corpo per superare la paura di essere dipendenti dalla cura delle altre persone, e perdere così pezzi di identità; lotte per guadagnare dignità nonostante tutt* le considerino inferiori, incapaci di decidere, inabili a dare cura; lotte per diventare soggetti che scelgono e non appena oggetti di cura.

Dice Eli Clare, scrittore trans e disabile: “La cultura occidentale bianca arriva all’inimmaginabile nel riuscire a negare le relazioni vitali tra acqua e pietra, pianta e animale, umano e non umano, così come il completo affidamento che ogni essere umano fa sulle altre persone. In questa cultura della negazione, quando quell* che al momento non hanno bisogno di aiuto per vestirsi o andare in bagno cercano di immaginare l’interdipendenza, falliscono. Rendendo visibile un mondo in cui abbiamo bisogno di supporto per alzarci la mattina e andare a letto la sera, visualizziamo una forma di dipendenza schiacciante, una terrificante perdita di privacy e dignità. Non ci fermiamo a notare che le nostre paure non riflettono la verità ma i limiti della nostra immaginazione.

Voce. Mara Pieri

Musica. “Brad PKL”, Blue Dot Sessions

Illustrazione. Elia Nadie

Testi citati.

The care collective (2021), “Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza”, ed. Alegre, trad. di Marie Moïse, Gaia Benzi

Clare Eli (2017), “Brilliant imperfection. Grappling with cure”, ed. Duke Press (la traduzione del frammento è mia)

2. La cura è confusa

La cura è confusa. O meglio, si confonde con mille altre cose. O meglio, viene confusa con mille altre cose. Per esempio: dipendenza. Gentilezza. Istinto femminile. Amore. Dovere. Dono. Regalo. Obbedienza. Potere.

Dice il dizionario che la cura è un interessamento solerte e premuroso per qualcuno o per qualcosa, attenzione, sollecitudine, premura. Prendersi cura, sempre secondo il dizionario, é assistere qualcuno, accudire, badare a, darsi premura, occuparsi. Però è anche impegno, accuratezza, attenzione, diligenza, precisione, riguardo, zelo, meticolosità.
Magicamente, da qui, si passa alla cura delle cose, alla cura dimagrante, all’antidoto, alla ricetta, al rimedio, alla direzione di una parrocchia, all’attività di sorveglianza. Sembra che anche il vocabolario riconosca che non c’è ambito della vita per cui non passi qualche accezione di cura.

In tutti questi sinonimi e significati, c’è come una propensione all’intendere la cura come qualcosa che sta dentro le regole, che viene fatto bene: qualcosa che si inquadra, che soddisfa, che interviene dove c’è qualcosa o qualcuno in difficoltà. D’altronde, la cura in senso medico è proprio questo: la ricerca di una soluzione per un malfunzionamento.

Sembra che ovunque ci giriamo l’idea della cura ci faccia sbattere contro una fragilità intrinseca. È da qui che dobbiamo partire per incontrarci con la cura, e per farlo però dobbiamo prima riconoscere quante accezioni patriarcali, abiliste, cattoliche, ci sono dentro. Ho detto patriarcali: intendevo la visione per cui la cura è un istinto che viene con il femminile, una predisposizione che ha a che fare con la maternità, l’accudimento, la protezione. Accezioni abiliste: per cui la persona con una fragilità, come una malattia o una disabilità, è sempre e solo un oggetto di cure altrui, è passiva, riceve ma non dà. Di fronte a malattia o disabilità si crea subito una differenza di potere enorme, in cui la persona sana e abile è sempre in una condizione migliore. Capitaliste: chi è fragile non è produttivo, e chi non è produttivo non ha valore. Questa è una semplificazione molto stilizzata, che però ci ricorda perché anche il lavoro di cura è automaticamente svilito e affidato alle donne.

Insomma: è difficile trovare la quadra a questa confusione di significati e sottintesi. Però una cosa mi sembra certa: prendersi cura di qualcosa o di qualcuno non è mai un’azione neutra.

Voce. Mara Pieri

Musica. “Brad PKL”, Blue Dot Sessions

Illustrazione. Elia Nadie

3. La cura è sovversiva

Oggi, la cura delle persone mal-funzionanti, come le persone malate, ricade in gran parte su due pilastri della nostra società: la famiglia di origine e la coppia. Inutile dirlo, lo sapete bene, soprattutto sulle donne. Nelle storie che ho incontrato, uno schieramento di madri, sorelle, zie, nonne, figlie, cognate, compagne e mogli si prende cura di chi non funziona bene. E poi: badanti, lavoratrici in nero, assistenti, infermiere, eccetera eccetera. Mi domando se anche questa sia una forma di incastrare la cura in norme ben definite, o meglio: che quando a gestire le redini della cura sono le persone culturalmente pensate per quello, nessuno si spaventa.

Raramente, invece, vediamo e ascoltiamo storie di persone con disabilità e malattia che si prendono cura di altre persone: come se la fragilità del corpo azzerasse ogni possibilità di relazione con il mondo. Ancor più raramente il supporto dato da amici, amiche, ex compagni e compagne, colleghi, vicine, è validato e riconosciuto come fondamentale. Anche se sono proprio queste le reti che da sempre tengono a galla tante persone LGBTQ+. Invece le persone LGBTQ+ e le persone con disabilità e malattia imparano presto a tessere reti nelle quali ci si scambia aiuto pratico, affetto, supporto emotivo, ma anche assistenza legale, supporto economico, spese, passaggi, pulizie in casa, telefonate nel cuore della notte, macchine in condivisione, bollette smezzate e non solo nelle emergenze, ma tutti i giorni.

Il mondo neoliberista ci fa credere che il futuro migliore possibile è un futuro in cui tutte le malattie saranno curate. Mi sa che invece come transfemminista il futuro migliore possibile è un futuro in cui tutte le soggettività che oggi sono schiacciate possano contare su reti di cura che le facciano vivere, non appena sopravvivere. E che un pezzo della nostra lotta deve reclamare e rendere visibili queste forme di cura che ci mantengono in vita.

Voce. Mara Pieri

Musica. “Brad PKL”, Blue Dot Sessions

Illustrazione. Elia Nadie

4. La cura è immaginazione

Non c’è modo di scappare dalla questione: anche se parte da una questione individuale, la cura è sempre una faccenda collettiva. Almeno se la riconosciamo come politica e da uno sguardo femminista.

Riconoscere l’interdipendenza che ci lega, in ogni istante, anche a chi non è simile a noi, al non umano, all’animale, al pianeta, alle piante, alle persone distanti da noi, è come fare quei giochi in cui si uniscono i puntini e solo alla fine si riconosce un disegno sensato. Forse la parola più importante è proprio riconoscimento.

Penso al riconoscimento del nostro passato: al sapere da dove veniamo. Fare memoria e tesoro delle lotte grazie alle quali siamo dove siamo. Come diceva Audre Lorde in Zami: “chi devo ringraziare per la donna che sono diventata“. Riconoscere il passato è cura collettiva anche e soprattutto fuori dalle date che anche il capitalismo sta imparando a celebrare – il Pride Month, il 25 novembre, la rivolta di Stonewall. Fare memoria è una cosa di tutti i giorni ed è importante che conosciamo chi vicino a noi, nel nostro piccolo, ha steso reti piccole e grandi su cui noi oggi ci appoggiamo.

Penso però anche al riconoscimento del nostro futuro, e forse è la parte che preferisco del lavoro di cura. Nella prima pillola, Eli Clare ci ricordava quanti limiti ha la nostra immaginazione quando non percepiamo la fragilità del nostro stare. Fare cura collettiva è anche usare tutta la nostra fragilità per costruire pratiche che danno forma al mondo che vorremmo. Prenderci cura di questa visione che fa della cura uno strumento di rivolta transfemminista, riconoscere sì anche le paure e le fratture, ma farlo insieme, sempre insieme.

Epilogo Grazie per aver condiviso questo viaggio di riflessione. Trovate tutte le pillole insieme, come un minipodcast, sul sito di Chroniqueers. Le musiche del podcast sono di Blue Dot Sessions. Le illustrazioni e le animazioni sono di Elia Nadie. Io sono Mara Pieri e vi ringrazio per l’ascolto. Ciao!

Voce. Mara Pieri

Musica. “Brad PKL”, Blue Dot Sessions

Illustrazione. Elia Nadie

Testo citato. Audre Lorde (2014), “Zami. Così riscrivo il mio nome”, a cura di Liana Borghi, ed. ETS